Articoli su Giovanni Papini

1929


Mario Bonfantini

Papini o di quello che si deve fare

Pubblicato in: La Libra, mensile letterario, anno II, num. 1, p. 1
Data: gennaio 1929




   Disse uno che i devoti sarebbero la miglior gente del mondo se non volessero con tanta ostinazione e pervicacia mettere ad ogni costo tutti gli altri mortali a parte della lor felicità. E, fuor di scherzo, non é raro il caso di un sant'uomo che si sforzi con opere e sermoni di propagar la sua beata certezza non solo, come sarebbe giusto, per le cose dell'anima, ma per ogni altra faccenda di questa vita terrena.
   Quello che si deve fare o non fare si svela allora agli occhi di questi galantuomini con incredibile sicurezza: il destino di un uomo, di un poeta, di un'intera letteratura, non ha misteri per essi: il tono dei loro consigli è risoluto e imperativo, le diagnosi per lo più catastrofiche, ma le medicine, in compenso, infallibili, purchè non manchi la fede e l'ubbidienza. E il bello è che spesso gli stanchi e i disillusi, i deboli che non mancano mai e sfiduciati della propria via, sognano le facili meraviglie delle comitive turistiche a itinerario obbligato, si danno anima e corpo al novello profeta, col risultato che tutti sanno e che del resto pienamente si meritano la loro interessata fiducia.
   L'Italia, a dir vero non ha mai sofferto troppo di questi malanni, e tanto meno l'Italia d'oggi, sicchè non varrebbe forse la spesa di parlare qui del feroce pessimismo e delle curiosissime prescrizioni che ci regala il Papini nell'ultimo suo quaresimale. se non fosse buona occasione di metter fuori anche noi qualche idea o di tentar un piccolo bilancio a modo nostro della presente letteratura.
   Giovanni Papini è dunque un sant'uomo, nessuno ne dubita, e animato da quella tal sicurezza che si è detto, preconizza la certissima rovina d'ogni spirituale salute a quanti romanzieri del nostro dolce paese vorranno perseverare in un genere di letteratura che non è il nostro, che fruttò solamente insuccessi, e che è finalmente e profondamente contrario al genio della stirpe: gli italiani tutti son condannati per l'eternità a scrivere di lirica, di storia e d'eloquenza, o, in caso diverso, a non far più nulla di buono.
   Per la logica del discorso, e per la curiosa pretesa di condannare una letteratura a ripetersi all'infinito sulla falsariga di un numero fisso di generi inviolabili e dominatori, non vorremmo far troppe parole. Ci basterebbe chiederci che mai avrebbe detto un Papini di quei tempi della bislacca idea di un Boiardo o di un Ariosto, che si misero un bel giorno a scrivere romanzi cavallereschi, affidandosi a un genere in cui i Francesi per l'appunto erano da gran tempo «passés maitres», e del quale non s'era avuto fino ad allora esempio in Ita1ia. E ci contenteremmo anche di ricordare (risalendo al di là del Boccaccio, di cui Giovanni Papini dà una speciosa e nuovissima interpretazione) come, oltre che nella greca: proprio nell'austera letteratura latina donde l'italiana tanto ripete, abbia avuto nascimento il romanzo: seppure l'immaginosa venustà delle favole e le fantasiose vicende elle piacque al felicissimo narratore Apuleio d'introdurre nel suo libro, e la maliziosa vena satirica e l'incisiva energia di un Petronio trovano qualche grazia presso il feroce cuore del nostro critico.
   Tempi andati, si dirà, ed esempi irranciditi: quel che conta è l'oggi, o tutt'al più lo ieri. E sia pure, bando alle chiacchiere e mano alla bilancia: vediamo questo sfortunatissimo ottocento italiano che dovrebbe dimostrare inoppugnabilmente la nostra incapacità al romanzo.
   Manzoni e Verga, due nomi; due nomi anche pei Russi, e non c'é bisogno di starli a dire: quattro in Francia (tralasciando come di troppo speciosa qualità i Tedeschi): qualcuno di più in Inghilterra, ma non tutti forse paragonabili agli altri. Francamente, mi pare si possa reggere il confronto senza bisogno di intonar geremiadi. Dei minori? Nievo, Fogazzaro, De-Marchi, Oriani, D'Annunzio.....
   Risponderà qualcuno (e già l'abbiamo detto qui) che se furono molti e valenti i romanzieri, non s'arrivò per questo a creare una vera tradizione narrativa, perchè isolati e discordi erano tutti quei valentuomini, si può ordinarli in un suol o additar tendenze verso comuni ideali: ma ad ogni modo l'incapacità della stirpe italica al romanzo, così stando le cose, non riusciamo proprio a vederla, anche a rischio di passare per ingenui.
   Se veniamo poi a questo primo quarto di secolo (che tanti si ostinano a vedere infelicissimo), di fronte a un Gozzano, unico e solo nella lirica, le novelle e i romanzi di Pirandello, l'opera intera della Deledda, la nuova maniera narrativa di D'Annunzio ne La Leda senza Cigno, i due ultimi libri di Svevo, e si dica pure anche Rubé, contro cui si trovò comoda la congiura del silenzio, mostrano, o almeno dovrebbero mostrare anche ai ciechi, come se qualcosa di buono s'è fatto lo dobbiamo proprio ai tanto deprecati romanzieri; gli sforzi ultimissimi sono tutt'altro che spregevoli, e niente impedisce di sperare che, se tradizione vera r propria finora non c'è, vi si possa arrivar presto, e fors'anche prestissimo.
   Non son queste cose peregrine, né vogliono esserlo: se tale speranza si dovesse mostrar senza frutto, tanto peggio: ci basterà per ora l'aver affermato ch'essa è fondata su qualche buona ragione, e non vediamo l'utilità di abbandonarsi una volta di più deprecazioni e previsioni apocalittiche, le quali hanno inoltre il difetto, nel caso presente, di essere di pessimo gusto.
   L'eloquenza, a quanto dicono, è gloria precipua dell'italiana letteratura: possibile che non si possa usar meglio che ad annebbiar le idee giornalmente e a varare una nuova teoria all'anno?
   Se a un critico parrà di scoprire qualche romanzo indegno della molta fama che gode e capace di traviar con l'esempio tanti begli ingegni ancor troppo inesperti, bene farà a stroncarlo senza remissione, ma negar così alla cieca pel gusto di mostrarsi incorruttibili è troppo comodo per riuscire in qualche modo fruttuoso. Certo costoro possono alle prime avere buon gioco, chiedendo a bruciapelo, per esempio, qual prodigio d'arte letteraria o qual nuovissima tempra di scrittore ci ha svelato l'annata or ora conchiusa, ma non vorremmo che qualche ingenuo ci si lasciasse pigliare: le vecchie retoriche contavano le età letterarie a secoli, o giù di lì, noi si crede ora d'aver trovato di meglio, ma che proprio vogliam farci tutti frati per espiazione, e gridar senza fine alla decadenza, perchè gli ultimi dodici mesi non ci han fruttato nemmeno un capolavoro?
   Davvero vien voglia di chiedere: quante opere dunque (opere diciamo, e non capolavori), veramente degne e ancor vive al dì d'oggi, si son stampate in Italia dal 1533 al 1560?
   Ma il livello generale, si dirà, la tradizione ancor viva e robusta, il gran secolo, insomma..... E noi credete che non si sia proprio fatto nulla anche per questo riguardo, dalla fine dell'ottocento fino ad oggi? Si è ricreata la lingua. Dal «manzonismo degli stenterelli», dall'umanesimo troppo personale di un Carducci, dal malinteso d'annunziano, siamo ormai tutti fuori e arrivati a un punto, se a Dio piace, che quando si vuol scriver qualche cosa non abbiam più l'ossessione di tanti modelli e del «bello stile» a tutti i costi. Piaccia o non piaccia agli sparuti accademici superstiti, gli scrittori d'Italia, da Croce a Malaparte, da Pirandello a Bacchelli, scrivon tutti, in fondo, in una stessa lingua, egualmente lontana dalla sciatteria e dall'accademia, schietta e viva, veramente contemporanea. L'ottocento ha disperso la tradizione. E sia pure: ma se noi vogliam ricrearla sarà vano attaccarci ai vecchi generi, dovremo rifarci proprio dall'ottocento; dall'ottocento (vedi caso), narrativo e critico. L'ottocento narrativo, anche in certe parti forse volgari, ha per noi tal ricchezza d'umanità e di vigor comunicativo che ci potrà esser molto da imparare; ed è inutile pigliarsela con la critica, essa esiste, è il «genere» nuovo dei nostri tempi ed ha diritto alla vita almeno quanto l'eloquenza e il poema. Son quelli i generi della tradizione italiana? La tradizione più sentita per noi ora non si chiama forse Dante e neppur Lodovico Ariosto. Essa va dall'ottocento storico e narrativo al settecento politico e scientifico, fino a Galilei, Machiavelli e Guicciardini.


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